La famigerata Serie D
C’è chi ci “sguazza” da sempre, chi ci arriva per raggiunti meriti o chi al contrario, dalla Lega Pro, ci finisce a causa di svariati motivi fallimentari… sto parlando della Serie D.
Nella stagione calcistica 2021/22 la Lega Nazionale Dilettanti, tenendo presente la prossimità geografica, ha organizzato il Campionato in 9 gironi, dei quali A, B, D, H e I a venti squadre e gli altri quattro nel classico format a diciotto, per un totale di 172 club partecipanti (battuto il primato dell’edizione 2014-2015 che aveva visto partecipare 171), molti dei quali, vuoi per una questione prettamente economica, vuoi per motivi di carattere strutturale legati alla propria storia e tradizione calcistica, pur riuscendo talvolta ad allestire rose competitive, non ambiscono in concreto a perseguire la promozione per entrare nel mondo del professionismo, fatte salve rare eccezioni, come ad esempio quella del San Donato Tavarnelle, piccolissima realtà sportiva della provincia fiorentina, questo anno vincitrice del girone E, che si è detta pronta al primo e storico passaggio in Lega Pro.
Per molteplici aspetti il campionato di Serie D è forse il più duro e difficile ed uno di questi è l’obbligatorietà, prevista dal suo regolamento, di schierare in campo 4 giocatori under di età compresa tra i 19 e i 22 anni e non è facile trovare dei soggetti pronti a confrontarsi in questo campionato, che si potrebbe definire qualitativamente un ibrido tra dilettantismo e professionismo, ove militano molti avversari esperti, talvolta carichi di un bagaglio tecnico ed esperienza accumulata in anni di permanenza in questa categoria o provenienti da categorie superiori. Per quelle società che vi scivolano dopo una retrocessione non è facile riuscire subito a risalire, talvolta vi rimangono impantanate per più stagioni. Questo accade soprattutto a quelle realtà che negli anni non hanno seriamente investito nel settore giovanile, considerato che in Lega Pro molti giovani giocatori di qualità, provenienti dalle Primavere di società anche della massima serie, tornano all’ovile e che i contratti stipulati in Serie C con i giocatori over decadono automaticamente, implicando l’esigenza di ricostituire un organico, nella maggioranza dei casi, completamente nuovo e che difficilmente, già dal primo anno, riesce ad amalgamarsi e a creare un’alchimia giusta e vincente.
Investire quindi sui giovani, a partire dalle scuole calcio, dovrebbe essere di norma il primo passo da fare seriamente e con competenza per garantire una certa continuità e consolidare le fondamenta di una struttura societaria. Purtroppo oggi nel calcio, come nel mondo in generale, tutto corre troppo velocemente e improntare il futuro su una programmazione a lungo termine è diventato molto difficoltoso, soprattutto per quei piccoli club provinciali che, oltre a non poter contare sugli introiti derivanti dai “botteghini”, considerata l’esigua presenza di pubblico, non trovano quel significativo appoggio economico dall’imprenditoria locale per poter fare il salto di categoria. A volte viene meno anche l’interesse ed il sostegno delle istituzioni, aspetto quest’ultimo che fa riflettere se si pensa all’importanza di questo sport collettivo da un punto di vista sociale.
Partecipare al Campionato Nazionale di quarta serie comporta un esborso non trascurabile, che grava per lo più su quei soggetti appassionati di calcio che decidono di imbarcarsi in un’avventura dove le spese difficilmente riescono ad essere compensate dai guadagni. Tali spese possono variare ma di fatto vanno messe subito a bilancio quelle relative alla gestione, la quale consta di svariate voci come ad esempio la retribuzione dei giocatori, dello staff tecnico, dello staff amministrativo o, per citarne altri, la manutenzione dell’impianto sportivo, le trasferte, il materiale tecnico, l’iscrizione ecc.… da questo elenco è facile totalizzare 380/400 mila euro di spese annue. Ovviamente, in base agli obiettivi che si prefigge una società, quindi alla qualità dei giocatori che ingaggia, tali cifre possono sensibilmente lievitare e talvolta si può arrivare a superare abbondantemente il milione di euro.
Talvolta però non è sufficiente investire di più per ottenere il miglior piazzamento, possono subentrare molteplici fattori a condizionare e determinare l’esito di una stagione, tra questi un’errata anche se costosa composizione della squadra, che non riesce a trovare i giusti equilibri, sia in campo che negli spogliatoi o una conduzione tecnico-tattica infruttuosa. Certo è che vincere un campionato di Serie D non è affatto scontato neppure impiegando importanti investimenti e per tale ragione alcuni club, intenzionati a ritornare nel professionismo, ma che non sono riusciti nell’impresa di arrivare primi del proprio girone, tentano la “carta” del ripescaggio. Ma quali sono i presupposti per usufruire di questa “scorciatoia”? La questione non è semplice, sono molti gli aspetti che delineano tale possibilità, primo fra tutti è quello di vincere i playoff del proprio girone, un passo indispensabile per acquisire il diritto di accedere ad una graduatoria dalla quale sarà poi possibile definire, attraverso l’acquisizione di un punteggio, determinato da tutta una serie di parametri, la squadra avente più diritto e quindi la precedenza.
Va precisato che esistono due tipi di ripescaggi, uno oneroso, che comporta un’ importante disponibilità economica da parte del club richiedente in quanto è previsto un primo versamento, a fondo perduto, di euro 300.000 ai quali vanno sommati euro 105 mila per l’iscrizione, più altri 350 mila a titolo di garanzia fideiussoria alla quale ne va integrata un’altra da 300, per un totale ammontante di 1 milione e 55 mila euro. Poi c’è quello non oneroso, più difficile da ottenere, definito riammissione.
Detto questo, pur avendo tutte le carte in regola per ottenere il ripescaggio, va considerato un aspetto fondamentale perché tale passaggio possa concretizzarsi, ovvero è necessario che in Lega Pro si creino dei posti vacanti da colmare, dovuti all’impossibilità economica di reiscrizione o per altri motivi. A seconda del numero di posti vacanti, i ripescaggi vengono stabiliti secondo il criterio dell’alternanza e cioè (preciso da questo anno) viene data la precedenza ad un club di Lega Pro retrocesso, poi ad uno di serie D e così via.
A quanto pare, secondo le recentissime disposizioni, il primo posto vacante è riservato ad una squadra B della serie A, se intenzionata a partecipare al campionato di lega Pro.
Insomma, una società di Serie D che conta sul ripescaggio per tornare nel professionismo, oltre a essere in possesso di tutti i requisiti e di un punteggio idoneo, deve anche cinicamente sperare nelle disgrazie altrui, nonostante ciò entri in conflitto con i principi etici intrinsechi al concetto di sportività.
Detto questo, la domanda sorge spontanea: preferireste fare un altro anno di Serie D con un organico effettivamente costruito per vincere il campionato o accedere alla Lega Pro attraverso un ripescaggio?
di David Purpura